Presento la mia relazione sul primo Congresso francese sul Neurinoma del nervo acustico (Parigi 31/01/09) precisando che non sono un medico né un giornalista e che spero di aver riportato le cose nel migliore dei modi, ma scusandomi anticipatamente con i lettori se talvolta il lessico che ho usato non fosse il più preciso. Scuserete anche qualche breve concessione allo humor, che è servito a me per alleggerire il compito di trascrizione di voluminosi appunti e spero a voi, per beneficiare di una lettura più lieve.
La sala che ospita il Congresso è all’interno di una bella struttura culturale e sportiva nel cuore del secondo arrondissement, a due passi da un’assolata e – alle nove di mattina – insolitamente deserta rue de Montorgueil. Superata l’iniziale delusione per il fatto di non aver trovato ad attenderci dei croissant caldi ma solo qualche tazza di un caffé indecentemente acquoso, prendo posto in una delle prime file.
Ad aprire la seduta interrompendo la gradevole diffusione di jazz da vecchia New Orleans è la signora Nicolas, presidentessa dell’associazione France Acouphènes, che ha organizzato il convegno. Relazione di circostanza: ringraziamenti, orgogliosa e gallica rivendicazione della propria appartenenza all’Associazione, presentazione dei temi del convegno; poi si passa al primo intervento.
Il prof. Philippe Herman (Lariboisière, Paris) fa un’introduzione dettagliata e precisa sul neurinoma dell’acustico, precisando da subito che fino ad oggi ci siamo sbagliati a definirlo tale, e sarebbe ora di cambiare lessico: dato che il tumore si sviluppa a partire dalle cellule di Schwann e che nella prima fase si forma sul nervo vestibolare (che assieme al nervo cocleare compone il nervo acustico – anche detto “vestibolo-cocleare”), sarebbe più appropriato parlare di ”Scwhannoma vestibolare”. Fatta questa precisazione percorre in rassegna la breve storia delle terapie associate al neurinoma (pardon, allo schwannoma) sottolineando come la scienza medica abbia fatto il notevole progresso di passare dal tentativo di non uccidere con l’operazione il paziente affetto dal tumore, al tentativo – piuttosto spesso efficace – di preservarne la qualità della vita post-operatoria. Oggi la maggior parte delle persone affette da un neurinoma dell’acustico pur dovendosi sottoporre a travagli e operazioni più o meno invasive, resta in vita e non deve rinunciare a condurre una vita sostanzialmente normale dopo la terapia. E questo è dovuto soprattutto alla maggior rapidità con la quale si riesce a diagnosticare il neurinoma oggi, cioé in genere prima che le sue dimensioni siano tali da produrre un innalzamento della pressione cranica a causa dell’effetto di compressione del liquido cerebrale, che puo’ anche avere effetti letali (ad es. l’infarto cerebrale). Il passo decisivo in tal senso è stato l’introduzione della RMI, mediante la quale si riesce ormai a visualizzare un neurinoma con assoluta certezza e precisione. Altro decisivo progresso si è avuto grazie allo sforzo informativo e didattico che i neurologi hanno condotto nei confronti degli otorinolaringoiatri, per i quali il neurinoma (data anche la sua rarità) resta una patologia difficile da ipotizzare e dunque diagnosticare rapidamente. Di solito, infatti, un medico tende a fare ipotesi neurologiche quando i pazienti lamentano vertigini, cefalee, emi-anestesie (cioé anestesie locali nella zona della tempia, attorno a un occhio, sullo zigomo): più difficile farle quando un degente denuncia una ipoacusia asimettrica e/o degli acufeni: rispettivamente il 75% e l’80% dei pazienti lamenta questi ultimi due sintomi, mentre solo il 20% e il 30%, rispettivamente, afferma di avere insensibilità o cefalee. Considerando che in tutto in Francia ci sono tra i 500 e i 700 casi di neurinoma l’anno, su tutto il territorio nazionale, è normale che le diagnosi non siano sempre precise.
Quanto all’aspetto terapeutico, nel male di avere un tumore il neurinoma riserva almeno il “bene” di essere un tumore benigno (nel 99.98% dei casi) e a crescita lenta. I 2/3 dei neurinomi non cresce anche su periodi di 5 anni, poi magari ricomincia, ma è evidente che se diagnosticati correttamente e per tempo, simili tumori possono essere trattati in modo efficace e poco intrusivo. Proprio in virtù di questa sua sostanziale lentezza, oggi una quota crescente di pazienti preferisce adottare una strategia wait&watch. Un recente sondaggio condotto tra neurologi e otorinolaringoiatri, alla domanda “se le fosse diagnosticato un neurinoma dell’acustico di volume inferiore ai 25mm cubici, cosa preferirebbe fare?” ha dato le seguenti risposte: il 7% ha dichiarato che vorrebbe essere operato, subito; il 6% ha detto che preferirebbe parlarne con il proprio chirurgo di fiducia; l’85% ha detto che preferirebbe tenerlo sotto controllo con delle RMI e vedere che succede e se non peggiorano i sintomi.
Nonostante quest’ultimo dato ingeneri qualche dubbio sulla fiducia che i medici nutrono nei riguardi dei propri colleghi, l’intervento terapeutico (sia esso chirurgico “aperto” che mediante raggi) non è più una causa di morte frequente per i pazienti e sta progressivamente riducendo il proprio impatto invalidante, benché sia ancora difficile preservare l’udito del degente, specialmente se si opera per via chirurgica (ovviamente, con l’operazione trans-labirintica, cioé entrando direttamente dall’orecchio, l’udito è irrimediabilmente perso, ma quella è una precisa scelta terapeutica). Alla domanda di una giovane affetta da neurinoma (21 anni), il prof. Herman ha risposto che è difficile ad oggi rilevare implicazioni genetiche nel neurinoma, fatta eccezione per il NFS-2, per il quale un’incidenza genetica pare piuttosto probabile. In generale l’incidenza della trasmissione genetica pare riguardare la possibilità che un neurinoma si sviluppi, più che questo si origini dalle cellule di Schwann.
In seguito prende la parola il dott. Claude Lévy, radiologo di Parigi, che oltre a tessere una affettuosa e calda lode della macchina per l’RMI precisa che ad oggi in genere ci si puo’ sbagliare sulla “taglia” di un neurinoma con un margine di al massimo 1-2 millimetri, un margine d’errore che in genere non incide sulle scele terapeutiche del paziente. Il resto dell’intervento, molto tecnico e molto poco seguito dalla sala, è una lunga carrellata di immagini di neurinomi mediante diverse apparecchiature, che produce un vivo apprezzamento trai medici presenti in sala ma un minor entusiasmo da parte del pubblico. Una bella signora a cui è appena stato diagnosticato un neurinoma di 20 millimetri, scavalcandomi, mi dice “beh, io vado a fumare una bella sigaretta, tanto se era per le sigarette, non mi veniva mica il neurinoma”. Pur non condividendone la filosofia medico-sanitaria, ho dovuto convenire con lei che a volte i radiologi con un microfono in mano possono indurre all’abuso di nicotina, dato il progressivo diradamento tra le file degli astanti.
In seguito prende la parola il Dott. Didier Bouccara, otorinolaringoiatra specialista in vertigini. In virtù della sua competenza anzitutto precisa che per “vertigine” in medicina si intende una sensazione rotatoria: le cose attorno devono girare perché si possa parlare di vertigine vera e propria. Nella diagnosi di un neurinoma la presenza di vertigini è cosa piuttosto rara, dato che la sintomatologia parla piuttosto di senso di disequilibrio. Cio’ ritarda talvolta la capacità di associare al malessere del paziente un’ipotesi neurologica. Nel suo ospedale (Beaujon-Clichy) la “prova del 9” è costituita dall’incrociare test multisensoriali: l’equilibrio è infatti determinato da un insieme di organi e fattori differenti, nella fattispecie:
- ricettori vestibolari e quindi udito
- retina e quindi vista
- ricettori nei muscoli (epitelio neurosensoriale) e quindi capacità motoria e posturale
L’equilibrio è quindi una risultante multisensoriale e adattiva. “Multisensoriale” nel senso che dipende da sensi diversi, “adattiva” nel senso che quando uno dei recettori dell’equilibrio si ammala e perde efficacia il cervello cerca automaticamente di compensare trasferendo responsabilità sugli altri ancora sani. Le implicazioni di questa realtà sono molteplici:
- neurinomi anche molto grandi non arrecano per forza problemi d’equilibrio
- i problemi d’equilibrio, a neurinoma fermo o in crescita molto lenta, tendono a ridursi con il tempo
- nella fase di diagnosi sono necessari test vari, dalla sollecitazione della reattività del nervo acustico (con acqua calda o fredda) a test della
mobilità e dell’indipendenza dei due occhi, ai più classici test d’equilibrio
- nella fase post-operatoria, un’adeguata terapia rieducativa tesa ad allenare vista e postura sviluppa le capacità compensative del cervello,
migliorando grandemente la qualità della vita di un paziente e va intesa come una tappa essenziale del processo di guarigione
Le terapie rieducative poste in essere nel centro del dott. Bouccara sono dunque basate su strumenti che puntano a migliorare l’equilibrio indotto da muscoli e vista mediante sedie e lettini rotanti, “planetari” di stimoli ottici di vario tipo, piattaforme oscillanti poste sotto i piedi dei pazienti. Detta cosi, sembra quasi una cosa divertente.
Nella fase immediatamente post-operatoria (2-4 mesi), proprio a causa della poca abitudine del cervello a lavorare in un contesto per lui nuovo, i sintomi di disequilibrio – differentemente ad esempio dagli acufeni – tendono a non diminuire: anzi sovente si accentuano. A detta del dott. Bouccara non è questa una cosa di cui ci si debba preoccupare, ma intervenire in maniera puntuale e progressiva per ridurne l’impatto. Nel caso di sintomi molto accentuati si puo’ far ricorso a farmaci specifici, i quali possono affiancare per un breve periodo di tempo le terapie rieducative, prima di esserne del tutto sostituiti. Quello che é importante far presente al paziente è che il fastidioso stato di disequilibrio (uno dei sintomi comprensibilmente meno graditi dai degenti) è passeggero e reversibile. E’ ovvio che ogni rieducazione compensativa puo’ solo far seguito alla stabilizzazione (naturale nei casi più fortunati, terapeutica per gli altri) del neurinoma. In tal senso e anche se puo’ apparire un po’ naif, la pratica del Tai Chi Chuan ha dimostrato di avere un impatto molto più efficace sulle disfunzioni all’equilibrio che molti neurofarmaci. Val forse la pena ricordare che il Tai Chi Chuan è quell’arte marziale cinese per la quale si vedono talvolta stormi di persone con la tuta muoversi in maniera apparentemente insensata oltreché lentissima nei nostri parchi cittadini – che siano tutti affetti da neurinoma?
La pausa pranzo giunge d’improvviso e non ritrovandomi rappresentato in nessuno dei gruppi che si preparano ad andare a mangiare assieme (“persone in attesa d’intervento chirurgico”, “fan del dott. Regis”, “neurochirurghi”, “strasburghesi” ...) decido di mangiare un filet de Rumsteak con salsa al pepe alla mia brasserie preferita, che è poco lontano e dove presta servizio una graziosissima cameriera bionda con l’hobby della pittura.
Alle 14 e 35 in punto, con soli cinque minuti di ritardo sul planning previsto, il prof Jean Regis, star assoluta dell’evento oltreché membro del Comitato scientifico dell’associazione France Acouphènes, occupa istrionicamente la scena. Presentato come medico dell’Ospedale “La Timone” di Marsiglia e professore associato a un quintetto di Università tra cui quella di Tokio, poggia il suo Macinosh nuovo fiammante sul tavolo e inizia una presentazione molto accurata, molto chiara e molto elegante sul piano grafico.
La presentazione prende il via dalla descrizione della Gamma Knife, di cui il Prof. Regis è principale interprete in Francia (la sola altra macchina è a Lille, nel dipartimento del Nord). La GK trae la sua origine dall’intuizione del suo creatore di concentrare tutta la potenza dei raggi gamma in una zona molto limitata, con lo scopo di irradiare il meno possibile gli altri tessuti sani vicini al tumore. Per farlo, ed ottenere il risultato di una concentrazione elevatissima in un’area molto ristretta, si è deciso di incrociare raggi gamma provenienti da una serie di fonti poste in forma conica, che mirano tutte nel medesimo punto, sommando il proprio raggio a quello delle altre.
Bisogna precisare che la GK non ha un effetto fisico immediato: non brucia, bolle, fonde niente. I raggi gamma sono utilizzati per bombardare i nuclei delle cellule tumorali e quindi ucciderle, impedendone la riproduzione. Per questo è necessario attendere in media tre mesi prima che si possano valutare i risultati della radiochirurgia, che, sottolinea il Prof. Regis, è ben diversa dalla radioterapia (a cui si ascrivono le varie terapie FSR): anzitutto la neurochirurgia è caratterizzata dalla presenza del casco stereotassico; in secondo luogo essa, proprio come un intervento chirurgico tradizionale, ha luogo in un’unica seduta; in ultima istanza, sempre secondo il Prof. Regis, essa è molto più efficace. Due sono gli anni che è opportuno attendere prima che si possa affermare con un buon margine di probabilità che non si sono arrecati al paziente danni collaterali. I dati paiono pero’ dire che le terapie FSR, in virtù della poca capacità di concentrare l’irradiamento in un’area ristretta, siano responsabili di un’incidenza di tumori indotti pari al 2% anche sette anni più tardi.
Nel caso della neurochirurgia al contrario sono molto pochi i pazienti che lamentano importanti problemi post-operatori (i casi di paresi facciale totale sono arrivati da circa un anno allo 0%), e la percentuale di successo dell’operazione è oggi del 97%. Quanto all’udito, il Prof. Regis afferma vi sia un collegamento tra la percentuale di udito che si aveva prima dell’intervento e quella che si conserva dopo: meglio ci si sentiva prima, più alte sono le probabilità di sentirci anche dopo. Inoltre i dati in possesso del Professore paiono indicare vi sia una correlazione statistica diretta tra presenza di acufeni e capacità di conservazione dell’udito dopo l’operazione: i pazienti che hanno lamentato acufeni nella fase pre-operatoria in genere conservano l’udito anche dopo. Altra possibile inferenza è quella che lega in maniera inversa età e perdita dell’udito a causa dell’operazione.
Per varie ragioni dunque l’80% dei pazienti curati in Francia sceglie ormai la GK, anche perché cosi’ consigliati dai propri medici. Per molti di essi si puo’ notare, a distanza di sei-sette anni (in tutto l’équipe del Prof. Regis ha curato ad oggi 2932 casi) una regressione del tumore – in termine di dimensioni, anche del 60%.
Per quanto riguarda l’approccio ai differenti neurinomi, il Prof. Regis sostiene dunque che lo schema d’intervento debba essere il seguente: in caso di tumore di piccole dimensioni (sotto i 25 mm di volume) data la percentuale di efficacia della GK e la sua bassa morbilità e nulla mortalità, è comunque meglio intervenire ma si puo’ anche attendere, verificando pero’ costantemente che esso non abbia preso a crescere. Al di sopra, meglio intervenire. In caso di tumori piccolo-medi e medi direttamente con la gamma knife, in caso di tumori grandi prima per via chirurgica, poi con la gamma knife: in questo caso l’intervento chirurgico puo’ limitarsi a “sgrossare” il tumore senza sollecitare eccessivamente il nervo acustico (e anche quello facciale, che è là accanto), con un impatto positivo sul decorso post-operatorio e sulla qualità della vita dei degenti.
Nulla impedisce inoltre di eseguire l’intervento chirurgico tradizionale qualora la GK dovesse fallire: su quest’ultimo punto non tutti i chirurghi sono in verità d’accordo, spiega Regis, “ma il chirurgo che mi seguirà ve lo potrà confermare”.
Il chirurgo che segue è in effetti il Prof. Hugues Roche, chirurgo “tradizionale” dell’ospedale di Marsiglia Nord, collaboratore e amico del Prof. Regis che durante la sua relazione conferma puntualmente quanto detto dal collega, corroborando le proprie affermazioni con una vasta serie di filmati in alta definizione di trapanazioni e fresature su cui non tutta la sala dimostra di avere una spiccata predilizione per l’anatomia interna, anzi si vede che molti non sanno dove guardare. Anche il vostro reporter, pur in genere non troppo femminetta, non manca di apprezzare che l’intervento del Prof. Roche sia stato previsto per il dopopranzo, invece che per il pre.
Tornando alla relazione, le tipologie d’intervento chirurgico “aperto” sono cinque. Tre cosiddette “conservative” (c) e due “non conservative” (nc) – s’intenda in riferimento all’udito:
- per via sopra-petrosa (c): si asporta un quadrato di scatola cranica sopra l’orecchio
- per via retro-labirintica (c): si asporta una mezzaluna di scatola cranica dietro l’orecchio senza pero’ toccare l’orecchio interno
- per via retro-sigmoidea (c): si asporta un cerchio di scatola cranica in basso dietro l’orecchio senza pero’ toccare l’orecchio interno
- per via trans-labirintica (nc): si “scava” a partire dall’orecchio esterno allargando la “via naturale”
- per via trans-cocleare (nc): si asporta una mezzaluna di scatola cranica dietro l’orecchio
Le ultime due vie prevedono la distruzione (fresatura) dell’orecchio interno, perché l’obiettivo è quello di aprirsi una strada immediatamente adiacente al nervo acustico. Va da sé che l’udito è perso in partenza. Le prime tre puntano soprattutto a conservare l’udito e sono dunque in linea di massima più indicate per i pazienti che al momento dell’intervento sono più giovani (la maggioranza dei casi, a quanto pare), hanno ancora un udito buono e ne fanno un uso anche professionale (si pensi al direttore d’orchestra che ha un bisogno pregnante di conservare una pur minima streofonia); mentre, data la maggior difficoltà tecnica che implicano, sono sconsigliabili nel caso di pazienti con neurinomi molto grossi o più anziani, per i quali la perdita dell’udito è o quasi certa comunque, o non altrettanto drammatica sul piano sociale e lavorativo, o del tutto secondaria rispetto al rischio di compressione del cervelletto che le vie conservative potrebbero indurre. Ad ogni modo, un chirurgo esperto e valido sceglierà in linea di massima con il paziente la via chirurgica su cui si sente più sicuro e su cui ha una maggior esperienza, ed è bene fidarsi del suo consiglio dato che sarà lui a operare.
Il prof. Roche ha poi percorso rapidamente la fase post-operatoria, indicando 4 fasi principali:
1. durante le 24 ore successive all’intervento il paziende resta in terapia intensiva
2. seguono poi diversi giorni di ospedale, nei quali il paziente inizia progressivamente a recuperare mobilità, facendo bene attenzione al primo
momento in cui dovrà alzarsi dal letto la prima volta, che é il momento più delicato
3. la fase rieducativa
4. la fase di controllo, con una RMI da fissare assolutamente 3 mesi più tardi e almeno un’altra più avanti
Quanto ai rischi dell’intervento chirurgico, il Prof. Roche ha confermato l’impressione comune: una ridotta ma non assente mortalità, infezioni (il 5% dei pazienti corre il rischio di contrarre la meningite), paresi facciale (il 18% dei pazienti cioé quasi 2 ogni 10 esce con il volto paralizzato dall’intervento chirurgico).
Con un certo sollievo della platea l’intervento sulla chirurgia “aperta” si conclude e il posto è preso dal prof. Charles Ambroise Valéry dell’ospedale La Pitié Salpétrière di Parigi. Devo a questo punto muovere, rispettosamente, una critica all’organizzazione della conferenza, critica che per onestà intellettuale ho mosso anche in sede agli organizzatori: il Prof. Valéry, pur certamente validissimo, si occupa di riduzione delle metastasi cerebrali. Non è dunque un tecnico del neurinoma e non conosce nel dettaglio dato dall’esperenza diretta le terapie FSR che è chiamato a presentare. E difatti le presenta indicando a supporto della sua tesi dati olandesi del 2003 o del dott. Andrews (2001) e risalenti dunque ad un periodo che anche ad un neofita dell’argomento come il sottoscritto pare eccessivamente lontano perché non siano sopravvenuti nel frattempo progressi magari rilevanti nel campo delle terapie FSR. Insomma, trattandosi di un argomento estremamente delicato che investe la vita di molte persone e sul quale il livello di specializzazione è estremamente elevato e i saperi sono difficilmente generalizzabili, mi pare che ci sia una perdita di credibilità scientifica e un danno alla completezza dell’informazione a escludere per la componente FSR una partecipazione informata ed entusiasta come lo é stata quella del Prof. Regis per il campo della GK.
Il Prof. Valéry, ad ogni modo, dopo aver presentato brevemente la macchina che permette il frazionamento dei raggi e il principio generale della terapia (uccidere le cellule tumorali lasciando a quelle sane degli intervalli di riposo in cui recuperare vitalità), la sconsiglia, indicando la Gamma Knife come più appropriata.
Ad una mia domanda su come mai non sia stata presentata l’esperienza del dott. Chang o quella del Besta, di Vicenza o di Messina (che praticano, in alcuni casi da anni, una prassi FSR basata su un’evoluzione della GK, la Cyber Knife), la risposta è che il Ministero della Sanità francese ha deciso di escludere la Cyber Knife dal novero delle terapie disponibili nel settore pubblico a causa dei suoi elevati costi (!). In questo almeno, supponendo che la Cyber Knife sia più efficiente e meno invasiva della Gamma e ammesso che la risposta datami sia corretta, l’Italia pare essere più avanti della Francia.
Terminata la fase dibattimentale che fa seguito all’ultima relazione neurochirurgica (di cui non conservo appunti di rilievo) restano all’appello gli interventi della simpaticissima dott.ssa Krastinova, chirurgo plastico dell’ospedle Foch di Parigi, e del sig. Bizaguet, audioprotesista e presidente dell’associazione francese degli audioprotesisti, la cui duplice e concomitante assenza e irreperibilità fino all’ultimo minuto hanno ingenerato nella platea maliziosi dubbi.
La dott.ssa Darina Krastinova, dotata di uno humor nero tipicamente russo che ricorda Daniil Charms, parla degli interventi di ricostruzione dell’espressività e della mobilità facciale a seguito di paresi totali post-operatorie, documentando il proprio intervento con numerose foto di tipo “prima e dopo” che fanno altalenare l’umore della platea tra un preoccupato e sussurrato “oh, merde” e un immediato sollievo.
I due principi cardine della sua terapia di ricostruzione estetica e dell’espressività sono un’attiva partecipazione del degente (che deve impegnarsi con determinazione e pazienza negli esercizi di ginnastica prescritti) e un’approccio completamente “bio”, cioé fondato sull’utilizzo di muscoli e parti del corpo del degente e non di supporti e protesi esterne (benché la recente introduzione della tossina del botulino le sia di un certo aiuto in alcuni casi). Quello che la Dottoressa sottolinea è inoltre la preponderanza della sorveglianza oftalmologica su ogni altro fine terapeutico: prevenire patologie dell’occhio dovute alla non occlusione della palpebra e alla conseguente secchezza è naturalmente più importante che recuperare tutte le espressioni della mimica facciale.
Per impedire la caduta della parte alta del viso la palpebra superiore viene di solito fissata all’arcata soppracigliare. La palpebra inferiore, più delicata, viene di solito sostenuta mediante una protesi cartilaginea prelevata dalla conca auricolare. Dal momento che il muscolo che si occupa dell’espressività della bocca è compromesso dall’intervento neurochirurgico, la Dottoressa provede ad allungare il muscolo che solleva le sopracciglia e ad insegnargli a occuparsi della bocca. Questo passaggio è nettamente più complicato e faticoso per il paziente e necessita un vero impegno da parte sua. Il vantaggio che comporta è che lo stesso muscolo prende a occuparsi anche della mobilità della palpebra superiore, rendendo non più necessaria l’installazione della placca d’oro sulla palpebra, che veniva praticata in precedenza e che produceva effetti spesso deleteri (l’immagine che accompagna questa spiegazione è in effetti molto dura e ritrae un occhio gravemente danneggiato). L’implicazione che la Dott.ssa Krastinova astrae è che recuperare il sorriso aiuta anche a sostenere la palpebra, il che accentua la filosofia biodinamica e complessiva del suo approccio.
Il sig. Eric Bizaguet parla invece delle protesi audio, stabilendo anzitutto la soglia sotto la quale si considera necessaria una protesi auricolare in 30db percepiti, benché questa regola si presti come sempre in medicina ad interpretazioni e adattamenti dovuti alla natura scatterizzata e soggettiva delle vite. Un apparecchio compensativo di un’ipoacusia indotta dal neurinoma deve:
- permettere un’incremento considerevole della potenza percepita dei suoni deboli, a supporto dell’orecchio interno, danneggiato
- preservare l’orecchio esterno, che è sano, difendendolo da rumori troppo forti
Il punto sta dunque nel creare macchine in grado di distiguere i suoni forti da quelli deboli, i suoni rilevanti per la persona e la sua socialità (musica, sussurri, il miagolio di un gatto) dai semplici rumori, in modo da amplificare i primi senza amplificare i secondi. Per ottenere un risultato simile è necessario creare macchine adattive, che riconoscano i suoni e li trattino diversamente, e sappiano classificarne potenza, rapidità, “bontà”.
Le nuove generazioni di apparecchi acustici vanno in questa direzione e i due principali tipi di protesi audio sono il CROS e il BAHA.
Il primo (Contralateral Routing Of Signals) raccoglie il suono con un microfono-trasmittente nel lato “debole” e lo invia all’orecchio sano. Un tempo c’era bisogno di un filo (che o passava dietro la testa o, nella soluzione più elegante, era inserito negli occhiali, invero un po’ spessi – anche se ora son tornati di moda tra la borghesia chic parigina), oltre a basarsi su un segnale analogico. Gli svantaggi erano dunque la scomodità del filo e il fatto che il segnale analogico potesse essere disturbato, a maggior ragione nelle più recenti applicazioni senza filo, basate sulla trasmissione radio. Oggi il segnale trasmesso è digitale, dunque la qualità è perfetta e senza interferenze (ma più metallico e freddo, la stessa differenza che c’è tra ascoltare Mozart su un cd e su un buon vecchio vinile) e ovviamente completamente wireless. Inoltre l’apparecchio è più piccolo e esteticamente accettabile.
Il secondo (Bone Anchorage Hearing Aid) invece che basarsi su un sistema trasmittente-ricettore diffonde i suoni sfruttando la risonanza della scatola cranica (è infatti impiantato in essa). Come è facile arguire, è più intrusivo ma garantisce una maggior stereofonia.
Con questo intervento e la successiva relazione finale di madame Nicolas il congresso si è concluso e siamo tornati a riveder le stelle.
Augurando a tutti un felice proseguimento vi invio il più caloroso abbraccio e un forte in bocca al lupo, oltre a pormi a disposizione di chiunque volesse informazioni, contatti, chiarimenti e approfondimenti.